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IL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO DELLE IPERCOLESTEROLEMIE
Lo studio MRFIT ha dimostrato che più alto è il valore del colesterolo totale, maggiore è il tasso di morbilità e mortalità cardiovascolare. Gli effetti di un trattamento ipolipemizzante sono, quindi, benèfici sugli eventi CHD, riducendoli in modo significativo, come hanno dimostrato gli studi in prevenzione primaria, LRC (Lipidi Research Clinic primary prevention trial, 1984) con la colestiramina, e HHS (Helsinki Heart Study,1987) con il fibrato (gemfibrozil). Tuttavia, solo con l' uso di una statina ( Woscops 1995), in questo caso la pravastatina, si dimostrò, per la prima volta, in prevenzione primaria, una riduzione non solo degli eventi CHD, ma anche della mortalità totale, con un risultato ai limiti della significatività (p<0,05). Tale tendenza, a favore dell'uso delle statine, è stata ampiamente dimostrata con i successivi studi di prevenzione secondaria ( 4S, Lancet 1995; LIPID, NEJM 1998; HPS, Lancet 2002) e primaria (HPS; ASCOT, Lancet 2003), con una riduzione degli eventi di rivascolarizzazione (24-37%), di eventi coronarici maggiori (29-35%), di mortalità coronarica (24-42%), di mortalità totale (23-30%) e di stroke (19-30%). Il colesterolo totale, per il 70-80 % è trasportato dalle lipoproteine LDL. I vari studi hanno dimostrato che proprio il colesterolo LDL (LDL/c) è quello aterogeno, e che i suoi livelli sono strettamente correlati al rischio relativo di coronaropatia, in modo lineare ed esponenziale: “ lower is better”, è la convinzione degli esperti, suffragata dai dati di metanalisi che evidenziano come sia sufficiente una piccola riduzione di LDL/c (-30 mg/dL), a prescindere dal valore basale di partenza, per ottenere una netta riduzione del rischio di coronaropatia, di circa il 30% (Circulation 2004; 110:227-239). In Italia, attualmente, si calcola ci sia almeno la metà della popolazione con una colesterolemia >200mg/dL; ridurre del 10% il valore del colesterolo totale, nella popolazione generale, ridurrebbe fino al 20-30% l'incidenza di malattie cardiache (strategia sulla popolazione), ma questo percorso sembra piuttosto dufficile da perseguire, sia per la complessità che per l'inadeguatezza delle risorse: si preferisce quindi concentrarsi sulla cosiddetta “strategia individuale”, basata sulle "carte del rischio globale CV", che danno un "peso" ai vari fattori di rischio che intervengono nella stessa persona, ed individuano, di conseguenza, un target di colesterolo cui mirare. Le linee guida, basate tra l'altro sull'impiego delle carte del rischio permettono di individuare diversi gruppi di persone ( con coronaropatia o malattie equivalenti; con 2 o più fattori di rischio; senza fattori di rischio) nei quali il valore del colesterolo LDL da raggiungere varia, ovviamente, per ottenere il risultato di un tasso di mortalità simile in tutti i gruppi. Ma quali sono i valori del colesterolo che possono essere considerati normali, nelle varie categorie di rischio? Proprio recentemente, alla luce dei nuovi trials clinici pubblicati (HPS; ASCOT-LLA; PROVE-IT; PROSPER; ALLHAT-LLT), il Comitato Scientifico del National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel III (NCEP ATP III), ha modificato le proprie linee guida ( Circulation, 2004). Sono indicate le malattie considerate "EQUIVALENTI DI RISCHIO DI CHD", e cioè il diabete mellito, l'arteriopatia periferica , la malattia cerebrovascolare, da trattare allo stesso modo del paziente con coronaropatia, raggiungendo lo stesso target. Tale equivalenza deriva da evidenze consolidate; per esempio i pazienti con malattia vascolare periferica (forme sintomatiche), con indice di Winsor < 0,70 , presentano una frequenza di manifestazioni CHD del 38% a 10 anni ( Leng et al. BMJ 1996), quindi di gran lunga superiori a quel valore del 20%, a 10 anni, considerato elevato rischio dalle carte più utilizzate. La revisione della nota 13, da parte dell' AIFA, tiene conto di questi studi, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione secondaria, considerando sullo stesso piano le coronaropatie documentate e le malattie "equivalenti" sopra descritte. Forse qualche discussione resta nella prevenzione primaria, da attuare in quei soggetti a rischio elevato di un primo evento cardiovascolare maggiore, valutato come >20% a 10 anni, in base alle carte del rischio del progetto Cuore dell'Istituto Superiore della Sanità . Gli studi più recenti ci fanno sorgere un dubbio: esistono valori del colesterolo sotto i quali non si evidenziano benefici, specie nei pazienti ad alto rischio? Lo studio HPS (Lancet 2003; Lancet 2004), che ha interessato circa 20.500 pazienti, con e senza coronaropatia, studiando gruppi di diabetici, di ipertesi, con malattia cerebrovascolare, con arteriopatia periferica, tutti con o senza coronaropatia, per cui si identifica come studio di prevenzione secondaria e anche primaria, ha dimostrato che c'era una riduzione del rischio relativo, utilizzando la simvastatina, alla dose di 40 mg/die per 5 anni, anche in quei soggetti che partivano da una condizione basale di colesterolo-LDL < 100 mg/dL. In particolare ha dimostrato che la terapia ipocolesterolemizzante serve: alle donne come agli uomini; alle persone sopra i 70 anni come a quelle più giovani; ai diabetici, agli arteriopatici sintomatici o con storia di ictus, come a quelli che hanno già avuto un evento cardiovascolare; a persone con colesterolo totale < 200 mg/dL e con colesterolo LDL < 120 mg/dL, come a quelli che hanno valori elevati. Tali dati sono stati ulteriormente confermati negli studi PROVE-IT (NEJM 2004, atorvastatina 80 mg/die vs pravastatina 40 mg/die, nella sindrome coronarica acuta recente) e ASCOT ( Lancet 2003, atorvastatina 10 mg/die vs placebo, in pazienti ipertesi con almeno altri 3 fattori di rischio, ma con valori di colesterolo tot.<250 mg/dL). In questo ultimo studio, in particolare, gli effetti benefici della terapia sarebbero stati dimostrati in una popolazione caratterizzata, per la massima parte, da un rischio CV globale relativamente basso, pari a circa il 10% nei 10 anni successivi, secondo le carte di rischio CV di Framingham . Il paziente dislipidemico, con ipercolesterolemia o altre dislipidemie familiari (circa 1 milione in Italia), deve, necessariamente, modificare le sue abitudini di vita e alimentari, combattere la sedentarietà e l'eventuale sovrappeso, smettere di fumare: tutte cose da fare, per almeno 3 mesi, prima di iniziare qualsiasi trattamento farmacologico, e da continuare successivamente (NCEP/ATP III, JAMA 2001), anche se, nelle forme familiari, la risposta alla dieta è spesso inadeguata. Una restrizione calorica a lungo termine, diminuisce il rischio cardiovascolare ( Proc Nat. Acad. Sci. 2004). Lo studio Euroaspire II (Lancet 2001), ha dimostrato che, persino nei pazienti già cardiopatici ischemici, difficilmente si riesce ad ottenere dei risultati sul controllo del peso ottimale, dei valori pressori, mentre qualche risultato si è ottenuto nel controllo dell'ipercolesterolemia, grazie all'uso delle statine, sebbene solo il 50% dei soggetti fosse stato trattato e, tra questi, solo il 50% avesse raggiunto il target terapeutico. Per questi motivi, la grande sfida per la medicina generale e per la sanità in genere, si gioca sulla possibilità di modificare i vari fattori di rischio, intervenendo sulla popolazione generale, magari con una medicina d'iniziativa, o addirittura anticipatoria, tracciando dei percorsi di orientamento alla salute (POS), attuando strategie organizzative efficaci e inventandosi nuove metodologie. Qualora fossimo costretti ad usare i farmaci, quali sono i più efficaci nel trattamento delle ipercolesterolemie? A cura di |